L’UOMO DI MERDA “NATURALE” LA CULTURA STERCORARIA

L’UOMO DI MERDA “NATURALE” LA CULTURA STERCORARIA

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Uso malvolentieri le locuzioni di cui al titolo, ma sono le più adatte a rappresentare le cose di straordinaria gravità che devo divulgare senza remore per contribuire a che la società le superi.

Orbene, fu un paio di anni fa che mi trovai per la prima volta di fronte ad una persona che mi ispirò quella definizione.

Una tragica tipologia umana che doveva essere diffusissima, data la sua coerenza ai processi psichici e culturali generati dalla subordinazione dell’uomo alle logiche economiche anziché delle logiche economiche all’uomo, ovvero al consumismo.

Una mutazione culturale dell’uomo nel mondo i cui passaggi mi furono tristemente chiari osservando degli adolescenti non ancora inquadrabili in quella definizione solo perché non ancora corrotti dagli opportunismi che dominano la vita degli adulti; benché le donne, pur coinvolte, siano in qualche modo difese dall’intimo, salvifico intento di esprimere un’idea di sé conforme ai canoni della qualità di dignità storicamente tipica del loro sesso.

Un processo la cui scaturigine è nel consumismo perché esso ha da subito richiesto la “liberalizzazione” del costume, dovendosi gli individui, per consumare, potersi “muovere” senza vincoli.

Si è così usata una cosa buona, la liberalizzazione, per il fine pessimo di asservire la società alle concezioni viziose necessarie ad indurre i consumi inutili, perché solo i beni inutili generano quell’insoddisfazione atta a causare nuovi consumi inutili e nuova insoddisfazione in un circolo chiuso all’infinito.

Perverse concezioni culminate, ad esempio, da ultimo, a partire dall’importante settore dell’abbigliamento, nella “politica dei prezzi”, attuata attraverso la strategia dell’evidenziazione delle “marche”, mediante la quale, come già detto in un precedente documento, si è riusciti a trasformare il consumatore in mezzo pubblicitario, ma soprattutto a rendere i prodotti tanto più facili da vendere quanto più costosi, in quanto strumenti di attestazione dell’unica cosa che ormai conti: la capacità di acquisto.

Processo di pseudoliberalizzazione realizzato sconfiggendo le concezioni repressive: una guerra tra il nuovo potere consumistico ed il vecchio potere clerico/fascista che, a partire dal 68, il consumismo ha iniziato a vincere con facilità perché le sue profferte erano irresistibili, mentre le forme di repressione vigenti disumane, violente e superate.

“Beni” la cui immoralità inizia dall’essere inquinanti e che, essendo l’inquinamento il massimo, il più grave ed il più urgente dei problemi umani, sono scellerati com’è scellerata la “liberalizzazione” mirante a farli consumare.

Una “liberalizzazione” realizzata sconfiggendo via via la cultura della corrispettività tra merito e premio, e demerito e sanzione, che è lo strumento per la creazione e la regolazione della società civile.

Società che diventa cioè civile proprio nel momento in cui riesce ad individuare forme civili, intelligenti, costruttive ma efficaci di sanzione del demerito e premio del merito.

Sanzioni del demerito che, per inciso, in ambito giuridico, devono essere di tipo civilistico, dovendosi realizzare il superamento del penale mediante la sua “civilizzazione”.

Pseudoliberalizzazione che nella prima fase ha prodotto la nascita di una serie di forme di indifferenza alle censure, rese possibili dalla graduale abolizione della recriminazione fisica, o comunque cruenta.

Nella seconda fase, invece, in seguito al fatto di “non usare più” le forme emotive atte a recepire le censure, sempre più screditate dalla radicalizzazione del permissivismo, è pian piano scomparsa dal sistema mentale quella “griglia” ideologico – emotiva atta ad avere una percezione dolorosa o in qualche modo disagevole dell’altrui giusta doglianza: la “griglia” costituita dal senso dell’onore, dalla dignità, dalla capacità di mortificarsi, di offendersi eccetera.

“Griglia” scomparendo la quale è comparso l’uomo di merda “naturale” e gli infiniti suoi sottotipi dovuti alle specificità di ognuno, tutti però caratterizzati dalla capacità di comportarsi sì in quelle maniere che in antico venivano attribuite all’uomo di merda, ma in modo “naturale”.

Un modo, cioè, scevro dalla sofferenza che affliggeva gli uomini di merda del passato: anch’essi senza onore e senza dignità, ma nell’intimo drammaticamente consci della loro pochezza perché le dure reazioni della società non gli consentivano di dimenticarla per un istante.

Diversamente da ora che, essendo gli uomini di merda “naturali” funzionali al potere consumistico, innanzitutto sono perfettamente omologati ed anzi praticamente apprezzati o addirittura acclamati, come la pletora di personaggi televisivi usati quali “modelli” di riferimento.

Inoltre sono maggioranza, sicché possono esercitare la loro “qualità” con il conforto dei più, pur rimanendo comunque condannati alla già detta insoddisfazione.

Una “cultura” orchestrata dal potere economico, gestita dal potere politico ed esecutivo, difesa dal potere giudiziario, sostenuta dai media, ma resa possibile dal consenso delle coinvolte maggioranze, perché, come scrissi nel 1985, “il nuovo potere, monolitico e puntiforme nella fase primaria, ha dapprima avuto la necessità di diventare tentacolare, abbracciando, per poter continuare ad esistere, un numero di adepti sempre maggiore man mano che la democrazia cresceva e si affermava, per poi organizzarsi da ultimo come “forza in sé” di cui ciascuno è per certi versi vittima e per certi altri protagonista; “forza in sé” dunque che ha avuto la necessità di avere il consenso di tutti e che tutti appunto ha dovuto coinvolgere per potersi svolgere, pur rimanendo nel contempo verticistica e prevalentemente rappresentata dai detentori del potere economico”.

Una pseudocultura che, in quanto dominata dai “valori” tipici degli uomini di merda “naturali”, è importantissimo definire stercoraria, perché la presa di coscienza è la prima indispensabile fase di ogni processo evolutivo, per cui trincerarsi dietro i linguaggi eufemistici equivarrebbe a rifiutare la guarigione da questa patologia della civiltà.

Il comportamento delle massime Istituzioni in relazione alla vicenda dell’art. 26 LR 11/84.

Non so se la ventennale vicenda dell’art. 26 LR 11/84 sia o no quanto di peggio tra Regione campana, ASL, ex USL, AGO, e GA siano mai stati capaci di “produrre”, ma è certo la più documentata, avendovi provveduto io stesso fin dall’inizio in una serie di scritti rinvenibili sul mio sito (nei libri e/o nei documenti).

Una vicenda che ha investito anche la Corte EDU, nella quale ho la stessa fiducia che ho nella giustizia italiana, anche se devo dare atto che da ultimo stanno entrambe dando continui segnali positivi ai quali non riesco però per il momento a credere, dati i trascorsi.

Ma, venendo al merito, con l’art. 26 LR 11/84, si stabiliva, per il triennio 84/87, per gli invalidi al 100% non autosufficienti, bisognosi di assistenza intensa e continuativa, non ricoverabili per carenza di strutture, l’erogazione di un contributo pari al 25% del costo del mancato ricovero.

Norma illegittima, giacché l’assistenza sanitaria è obbligatoria (pendono, con svariate motivazioni, centinaia di ricorsi a Strasburgo e, data la situazione, altri ne saranno via via inevitabilmente presentati), sicché l’ammissione, addirittura con legge, di un così inadeguato surrogato del ricovero a causa della carenza di strutture costituisce già di per sé titolo dell’azione per danni dinanzi alla Magistratura europea (c’è peraltro già stata una condanna: sent. 33804/2000).

Ciò nel mentre pendono anche, assurdamente, dopo 20 anni, una paio di migliaia di giudizi tra TAR e Consiglio di Stato, generati dall’intreccio di violazioni a getto continuo della Regione, delle ASL e delle ex USL.

Anche se l’originario responsabile di questa orrida vicenda sono le Sezioni Unite che, nel 92, per sottrarre la Regione alle sentenze di condanna dei Giudici del Lavoro, si sono inventate un’inesistente giurisdizione amministrativa per gettare i diritti degli invalidi nella morta gora dei TAR e del Consiglio di Stato, per la cui abolizione dobbiamo tutti lottare non avendo la giurisdizione amministrativa altra funzione che garantire l’impunità alla P.A.

Un contributo per l’erogazione del quale fu istituita all’epoca una commissione che individuò alcune migliaia di invalidi particolarmente gravi, e li iscrisse nell’apposito: “Elenco degli aventi diritto al contributo ex art. 26 LR 11/84”.

Contributo che, per i tre anni previsti (84/87), ammontava a 20 milioni di lire, contro gli 80 del costo del ricovero, ma non fu erogato, anchese in varie occasioni elettorali vennero erogati dei piccolissimi “anticipi”, circa da 30.000 a 300.000 lire.

Violazioni in seguito alle quali nel 90 iniziai, seguito poi da altri colleghi, a proporre dinanzi al Giudice del Lavoro una serie di ricorsi contro le USL e la Regione.

Ricorsi così palesemente fondati che furono tutti – nessuno escluso – accolti dai Pretori del Lavoro non solo di Napoli, ma di tutta la Campania, che pronunziarono circa mille sentenze di condanna al pagamento del contributo per altrettanti invalidi, fra quelli difesi da altri studi e quelli difesi da me.

Sennonché subito si configurò un virulentissimo “apparato del rifiuto”, in realtà allora come oggi dovuto al fatto che vennero nominati (secondo i “trasparentissimi sistemi” da sempre in uso) dalle 60 ex USL un paio di centinaia di avvocati (più altri, poi, dalla Regione e dalle ASL), interessati alla proliferazione infinita del contenzioso.

La Regione, così, non solo continuò a non pagare, facendosi fare delle procedure esecutive che, in seguito ad ogni genere di resistenze e giudizi di opposizione, durarono sovente anni, ma impugnò le sentenze, quasi ritenesse che un ente non debba giammai pagare quanto previsto per legge, se non in seguito a sentenza di condanna definitiva: logiche apparentemente ottuse, ma in realtà dettate dalla predetta costante di fondo di voler distribuire incarichi.

Impugnative, si badi, non nel merito, perché nel merito, in relazione agli iscritti all’elenco degli aventi diritto, non c’è mai stata una sentenza negativa, ma solo per sostenere la giurisdizione del TAR, ovvero per chiedere che il diritto dei ricorrenti, già affermato dai Pretori, venisse riaffermato dal TAR: un’operazione costosissima come desiderato, ricadendo essa costosità a beneficio dei già detti professionisti.

Impugnative che culminarono in regolamenti di giurisdizione che le Sezioni Unite, smentendo le mille sentenze pretorili, accolsero sorvolando garibaldinamente la circostanza che si verteva in tema di assistenza obbligatoria, ovvero di diritti, giammai di interessi legittimi.

E fu così che, sempre in gloria alla logica di conferire incarichi a più non posso, venimmo costretti, con la sapiente minaccia delle sia pure infondate azioni restitutorie, a riproporre i ricorsi al TAR.

Azioni restitutorie infondate perché se l’omesso pagamento di una obbligazione può ben causare il ricorso al giudice, l’annullamento per difetto di giurisdizione della sentenza in virtù del quale si è riscosso non implica di per sé la restituzione della somma se essa era comunque dovuta, come dovuti sono i contributi ex art. 26 agli iscritti all’elenco degli aventi diritto.

Un contributo che, dovendo essere stato pagato al massimo entro il 1987, una volta che lo sia stato non può essere messo in discussione da delibere del 2003, tanto più che la Regione, in base a quegli elenchi, ha pagato negli anni il contributo in via transattiva a 500 e più aventi diritto.

E solo il fatto che la questione è nelle mani del TAR e del Consiglio di Stato, “catringuli” (nel dialetto del mio paese: marchingegni cervellotici quanto inutili) inidonei a garantire i diritti, spiega perché non emerge che la PA non può riconoscere una cosa ad uno e negarla ad un altro.

Un ben oleato apparato del rifiuto fruttato fin qui, specie per il passato (oggi, benché continuino ad esservi incarichi a professionisti esterni, la Regione, ma in genere non le ex USL, è di solito difesa da avvocati interni), gli onorari di non meno di 10.000 gradi di giudizio relativi a circa 2.000 cause, per i quali la Regione ha pagato le spese ai difensori degli invalidi per circa 1.000 gradi (quelli vittoriosi), pagando invece, naturalmente, le spese ai suoi difensori per tutti i 10.000 gradi.

Senza contare le procedure esecutive.

10.000 gradi che per di più abbiamo vinto quasi tutti, sempre, è chiaro, senza riconoscimento di spese (salvo qualche eccezione), e nelle sghembe forme ineseguibili connaturate ai TAR ed al Consiglio di Stato, ma che in compenso sono costati alla Regione, ex USL ed ASL, per le spese dei loro difensori, più di quanto avrebbero dovuto dare agli invalidi (un anziano collega, ogni volta che mi incontrava, mi copriva di sincere benedizioni per i circa 600 milioni che aveva potuto incassare quale difensore di una ex USL nelle cause da me proposte in vari gradi, con le quali – così diceva – gli avevo consentito di sistemarsi per la vecchiaia).

Senza contare gli enormi costi del lavoro interno sprecato.

In tutto ciò, il 24.2.00, in udienza, al Consiglio di Stato, mi ritrovai ad assistere esterrefatto allo spettacolo di un collega che chiedeva la cancellazione di 60 cause ex art. 26 esibendo un verbale di conciliazione per 20 milioni ad ogni invalido più 20 milioni a causa per spese.

Transazioni che, come poi seppi, la più parte delle USL, piacendo a loro, nel mentre tormentavano la collettività degli invalidi con le loro resistenze, facevano qui e là da tempo.

In ogni modo, dopo oltre un anno e mezzo di trattative con la ASL 1 e le relative dieci ex Usl, anch’io addivenni alla transazione delle liti con il pagamento di 20 milioni e la rinunzia agli interessi e la rivalutazione, ammontanti allora a 47 milioni, più le spese.

Spese ben inferiori a quelle pagate dalla Regione a quel collega, che tuttavia, poiché pare che anch’egli avesse fatto 4, 5 gradi di giudizio in media per ogni causa, sarebbero esatte, a differenza di quelle, di gran lunga minori, che, dopo una defatigante trattativa, accettai pur di definire.

Circa 500 conciliazioni tutte relative ad iscritti nell’elenco degli aventi diritto, salvo naturalmente quelli che avevano vinto in passato le cause e riscosso in via giudiziaria.

Transazioni che ad un certo punto furono interrotte, creando una grave discriminazione.

Iniziò così una serie di attività della Regione miranti a “riformare” la materia dopo venti anni dal momento in cui la questione avrebbe dovuto essere stata chiusa con i pagamenti, ignorando (senza nemmeno dichiararli decaduti) i vecchi elenchi degli aventi diritto, e disponendo, per i vivi e per i morti (per i morti sulle carte), la ripetizione degli accertamenti si badi: non più ai fini dell’individuazione degli aventi diritto, bensì ai fini della formulazione di una graduatoria mai prevista dalla LR 11/84.

Tutto in un regime di confusione, omissioni, violazioni, abusi e contraddizioni di ogni tipo.

“Graduatorie” impugnate da tutti e che tra l’altro, se la Regione non contasse di poter commettere indisturbata dalla giustizia amministrativa quanti abusi vuole, avrebbero un costo maggiore delle transazioni, perché occorrerebbe riconoscere agli invalidi “migliori” (mi si scusi l’amara ironia) il contributo comprensivo degli interessi, ovvero, oggi, 35.000 euro, contro i 10.000 delle transazioni.

Un problema che la Regione ritiene di risolvere arrogandosi di stanziare una modesta cifra per poi ripartirla in proporzione ai suoi arbitrari punteggi, senza tener conto dell’importo in misura fissa di cui all’art. 26.

Operazioni che non so se riusciranno, perché sfugge forse un aspetto della questione.

Sfugge cioè che è un’era di cambiamenti giurisprudenziali e normativi continui e clamorosi.

Faccio notare ad esempio che, in seguito alla legge Pinto, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha già subito tante condanne per il risarcimento delle lungaggini del TAR e del Consiglio di Stato per quanti sono gli aventi diritto ex art. 26.

Condanne in primo grado, per le quali pendono ora i ricorsi in Cassazione, avendo la Corte d’Appello di Napoli liquidato somme inferiori a quelle previste dagli standard europei.

Ricorsi in Cassazione che stanno – tutti – avendo esito vittorioso, sicché sarebbe proprio il caso che la Corte dei conti rileggesse le carte che negli anni ho continuato ad inviarle inutilmente, e facesse infine qualcosa.

E’ vero inoltre che non ci si può troppo fidare della Corte Europea, ma essa non sarà libera di fare quel che vuole all’infinito, né credo che in questo la stia molto agevolando il mio documento n. 103, dell’11.1.05 (vedi in internet), con il quale ho reso noto a tutti Parlamentari e le massime Istituzioni d’Europa, in cinque lingue, i suoi inqualificabili arcani.

Sicché, considerando anche che c’è già stata una sentenza positiva, non escluderei che si passi la mano sulla coscienza e inizi ad accogliere questi o quei ricorsi pendenti, o quelli che proporremo a fronte delle varie situazioni che via via sopravverranno.

Accoglimenti consistenti in una serie di condanne di grosso importo contro il Governo, i cui responsabili conto verranno chiamati a rispondere, a partire dagli ineffabili inventori della graduatoria in sostituzioni dei vecchi elenchi.

Meri elenchi, come si legge all’26: “dei soggetti non autosufficienti portatori di handicap psicofisici, incapaci di provvedere ai propri bisogni primari e che rendono necessaria un’assistenza intensa e continuativa.”, ovvero dei più gravi.

Una così agghiacciante descrizione del concetto di gravità che il volervi aggiungere qualcosa oltre il 100% di invalidità e la non autosufficienza, oltre ad essere, più che cinismo, mera cretineria burocratica, viola senz’altro i diritti umani garanti dalla CEDU.

Né l’articolo 26 fu concepito come un premio agli invalidi che avessero all’epoca brillato nel raggiungere i più alti picchi della sofferenza, ma come un sostegno alle famiglie per consentir loro, data l’impossibilità del ricovero per mancanza di strutture, di fronteggiare le tragiche evenienze legate, come ciascuno può intendere, alle gravi difficoltà di fornire, in casa, giorno e notte, a quegli sfortunati un’assistenza “intensa e continuativa”.

Elenchi degli aventi diritto, quelli del 1984/1987, si osservi, mai impugnati per nessun motivo da nessuno, nonché, lo ripeto, valutati utili dai Pretori del Lavoro quali presupposto di mille sentenze di condanna.

E quanto alle prevedibili innovazioni, va tenuta presente l’importantissima sentenza S.U. n. 28507, del 23.12.05, che dice finalmente una cosa (che per la verità io continuo a scrivere dal 94) che avrà conseguenze incalcolabili nella giurisprudenza italiana di ogni grado.

Riconosce infatti quella sentenza che:”La l. 848/1955, provvedendo a ratificare e rendere esecutiva la Convenzione, ha introdotto nell’ordinamento interno i diritti fondamentali, aventi natura di diritti soggettivi pubblici, previsti dal titolo primo della Convenzione e in gran parte coincidenti con quelli gia indicati nell’art. 2 Cost., rispetto al quale il dettato della Convenzione assume una portata confermativa ed esemplificativa (Corte costituzionale, 388/1999).

La natura immediatamente precettiva delle norme convenzionali a seguito di ratifica dello strumento di diritto internazionale è stata già del resto riconosciuta esplicitamente dalla giurisprudenza di questa Corte che ha affermato l’avvenuta abrogazione dell’art. 34, comma 2, del r.d.l. 511/1946, nella parte in cui escludeva la pubblicità della discussione della causa nel giudizio disciplinare a carico di magistrati per contrasto con la regola della pubblicità delle udienze sancito dall’art. 6 della Convenzione, che pone precisi limiti alla discussione della causa a porte chiuse (Sezioni unite 7662/1991); parimenti ha riconosciuto il carattere di diritto soggettivo fondamentale, insopprimibile anche dal legislatore ordinario, al diritto all’imparzialità del giudice nell’amministrazione della giustizia, con richiamo all’art. 6 della Convenzione (Cassazione 4297/2002), e, infine, ha espressamente riconosciuto la natura sovraordinata alle norme della Convenzione sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata precettività nel caso concreto (Cassazione 10542/2002).

Deve essere quindi superato l’orientamento secondo cui la fonte del riconoscimento del diritto all’equa riparazione dev’essere ravvisata nella sola normativa nazionale (Cassazione 11046/2002; 11987/2002; 16502/2002; 5664/2003; 13211/2003) e ribadito il principio che il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo attribuito dalla legge nazionale coincide con la violazione della norma contenuta nell’art. 6 della convenzione, di immediata rilevanza nel diritto interno.” Di talché non resta che adeguarsi: dal Giudice di Pace alla Corte Costituzionale, siamo ormai in pieno regime europeo.

Alfonso Luigi Marra

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Argomenti trattati: 692 | Lotta al signoraggio bancario: lo strapotere di banca e finanza nella vita reale.
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