Al Parlamento sulla pregiudizialità della legge che vieti ai giudici di giudicarsi tra loro
Quale una casta Danae teneramente protesa con gli ausili di Amore dall’atroce involucro di bronzea statua verso Giove liberatore in sembiante di aurea pioggia così, rapita, arrideva dai tetri paramenti il PM Marinella Guglielmotti al profilo del collega Antonio Clemente intento con puntigliosità graziosa di pur virile fanciullo a districare i fili del microfono nel quale, nel processo contro di me per calunnia, stava per deporre quale teste..
circa le violazioni a mio avviso commesse da lui stesso, Rossella Catena ed Eduardo De Gregorio nelle troppo lunghe e faraoniche quanto vane indagini contro di me: uno dei tanti mostri logico / giuridici figliati dall’anomalia dell’artato “processo” alla mia cultura.
Un “processo” che è in realtà un’ormai ventennale persecuzione rivolta all’obiettivo scellerato quanto stolto di annientarmi iniziata, con il concorso delle istituzioni italiane, mediante la legittimazione, nel 1985, ad opera della magistratura australiana, del rapimento del miei primi due figli da parte della mia ex moglie.
Un delirio ventennale di ininterrotti silenzi, un ventennale “parlar d’altro” miranti a soffocare le mie teorie, che d’altronde diverranno intelligibili solo con la fine del consumismo, consistendo la sua essenza nell’abdicazione di massa appunto all’intelligenza.
Per un momento l’atmosfera stantia del Tribunale di Salerno, orrido speco di disfunzioni, arretratezze e perdizione da decenni di ogni tipo di non importa quanto fondate cause di lavoro e previdenziali, era stata illuminata dalla leggiadria della scena.
Gli sguardi di Saverio Campana, amico mio e mio bravissimo difensore, ed il mio, vi si erano incontrati grevi di sconcerti ed allusioni ai timori che evocava.
Sconcerti e timori dei quali eravamo già preda da quando, entrando in aula, avevamo sorpreso, di spalle, Clemente, seduto al tavolo del pubblico, e Guglielmotti, confidenzialmente china su di lui, mentre circospetti parlottavano fittamente.
Un senso di smarrimento e di esclusione m’aveva colto come nel rivelarsi, tra una donna fidata ed un avversario, inattesi i segni d’un segreto connubio.
Più ancora di quel latte e miele colpiva poi il contrasto con gli stridii come tra lime e raspe con noi.
Spettacolo peraltro fuorviante perché ben altro che le simpatie rende illegittimo il giudicarsi tra loro dei giudici.
Benché, pur non potendosi arguire più di tanto, la scena simbolizzava bene l’ovvia carenza, a priori, di garanzia di una neutralità innanzitutto psicologica, dati i legami di classe, di amicizia fondata sull’affinità, di comunanza di interessi, di attività eccetera.
Tea Verderosa, la giovane giudice, era abbastanza impenetrabile, ma questo non ha di solito alcun significato, mostrandosi sovente il giudice neutrale proprio se non ti è favorevole, per evitare così le reazioni difensive.
E poi, comunque fosse, nulla, dinanzi al sorriso di Guglielmotti, avrebbe potuto impedire ci pervadesse la convinzione dell’inevitabilità della mia sia pur assurda prossima condanna per calunnia, che tuttavia, da ottimista, volli valutare come una positiva opportunità di continuare ad avere occasioni per non distrarmi da queste tematiche di grande rilevanza sociale sorretto anche dalla convinzione che, come dice mia moglie Loredana, “malgrado la giurisprudenza e la legge, il mondo insegue il diritto”.
D’altra parte mi ero recato in udienza quel 18 luglio 2005 proprio per fare un’esperienza fisica, sulla pelle, allo scopo di trarne ispirazione, dei drammatici effetti della mancanza di una norma che vieti ai giudici di giudicarsi tra di loro.
Anche se non contavo sarei stato talmente fortunato.
E’ infatti gravemente incostituzionale, già dal punto di vista del diritto naturale, che a componenti di una qualunque tipologia di aggregazione sia consentito di giudicarsi fra loro in giudizi con controparti “estranee”, come fanno i giudici negligendo che la loro politicità, mancanza di terzietà eccetera è svolta in continuazione nelle sentenze della Corte Europea.
Con il mio documento mi auguravo di rinsaldare, dopo averlo in precedenza innescato con altri scritti, il processo culturale e politico che avrebbe prodotto una norma che lo vietasse, ma per il momento non restava che rassegnarmi alla condanna.
Quanto a Verderosa, ne avevo un’istintiva considerazione, ma a prescindere da ogni impressione personale restava la mancanza di garanzia giuridica in un clima saturo delle tensioni meno adatte ad ispirare ad un giudice così giovane un gesto così “ostile” come l’assolvermi in danno di tante forze interne al suo contesto di riferimento.
Oltretutto, fermo restando l’irresolubile vincolo di casta di fondo, lo scontro fra PM e giudici garantisti emerge con forza crescente ora che gli eccessi inquisitorii ed accusatorii degli ultimi anni si vanno sempre più infrangendo contro il vaglio dei processi.
Un fallimento che ha invelenito il populismo accusatorio rendendolo aggressivo anche verso quegli stessi giudici che, per finezza giuridica (sinonimo di garantismo), vengano “schedati” quali ammazzasentenze o ammazza-accuse.
Un populismo che usa l’approssimativismo per fini di conservazione e che pertanto ha eluso, anche nel civile, la meccanizzazione allo scopo di scongiurare la trasparenza che è in grado di arrecare mediante il suo straordinario potere di semplificazione.
Meccanizzazione: la parola che fa paura in Italia più di qualunque altra perché è in grado di lasciare disoccupate intere fasce sociali che oggi, dalle varie posizioni, fanno del governare quel disordine, che una migliore meccanizzazione eliminerebbe, il loro lavoro.
Un populismo che, pur cogliendo aspetti importanti del malessere sociale dovuto al regime di generalizzata violazione di ogni norma, è comunque odioso perché animato da tutt’altri intenti che redimere la società.
Ed il “processo” a me, l’ideologo che da vent’anni “lavora finanche da avvocato per finanziare la sua rivoluzione senza sangue senza morti e senza sconfitti”, rischia di assurgere a simbolo della deprecabilità di queste concezioni e macchia incancellabilmente coloro che, non essendosi limitati al silenzio (come l’avvocatura), si sono addirittura adoperati per colpirmi.
Né si può tacere, più terra terra, che la mia assoluzione dalla calunnia implica per Catena, Clemente e De Gregorio un incremento del rischio di dovermi restituire, con le spese di tre gradi e gli interessi, i circa 500 milioni di lire che sono riusciti ad ottenere in seguito alle sentenze civili di primo e secondo grado.
Senza contare la smentita che colpirebbe i giudici dei sei collegi civili che hanno accolto le loro errate oltre che esagerate richieste.
La cosa più saggia sarebbe ora fermarsi, scusarsi, esprimermi la loro costernazione, ma son cose che solo pochissimi sanno fare, sicché non posso che immaginarli intenti fino allo spasimo nello sforzo di non perdere, naturalmente sempre e solo con mezzi assolutamente legittimi ed onorevoli; ma quanto a questo non vedo davvero a chi potrebbe mai venire in mente di dubitarne.
Un’operazione non poi così agevole, perché non mi è certo sfuggito che, salvo i giudici dei collegi civili per l’inesistente risarcimento danni, i GIP o i giudici mi hanno fin qui tutti scagionato (sono dunque ben conscio della grande civiltà della stragrande maggioranza dei giudici).
Ora però c’è di diverso che corrono un rischio morale così elevato da dover inevitabilmente suscitare la solidarietà di classe, al punto che finanche a me spiace della posizione in cui si sono venuti a trovare, perché li considero solo tre giovanotti meno cauti di altri.
Inoltre, benché la quasi totalità dei giudici non ha mai avuto né mai si è sognata di chiedere un euro di risarcimento a nessuno, sicché sono pochi (e noti) coloro che si sono arricchiti con una messe di sentenze che nessun cittadino non giudice avrebbe mai potuto ottenere, pure loro finiscono però per farsi intrappolare nel ruolo di maggioranza silenziosa mediante sistemi esperti facenti leva sul corporativismo.
Anche se la riforma che invoco stimola la resistenza corporativa soprattutto perché implicherebbe l’inizio di un’era della crescita dell’impegno.
La scaturigine del conservatorismo è infatti nel naturale rifiuto dell’impegno da parte di ogni individuo: cosa facilissima da capire ove si voglia, tant’è (mi si perdoni il calo di tono, ma non vorrei, in tanta sofisticatezza, dare la sensazione sfuggano gli aspetti più banali delle cose), che l’affermazione secondo la quale se il lavoro fosse bello lo farebbero i cani, l’ho appresa da un uomo molto semplice come mio nonno, e non ho avuto difficoltà a spiegarla, fin da bambini, a Caterina e Marco, i miei sia pur acutissimi due figli piccoli.
Sussistono poi, da un punto di vista psicologico, fra giudici giudicanti e giudici giudicati, delle troppo facili occasioni di collusione, a partire da quella amichevole: ovvia nel rapporto di colleganza, pressoché impossibile da perseguire, magari priva di connotazioni penalisticamente rilevanti, ma non per questo meno odiosa.
“Fare amichevolmente corpo” in due o in molti per far passare delle linee piuttosto che delle altre sarebbe di per sé grave quand’anche le intenzioni fossero delle migliori, visto che la composizione delle aggregazioni indagatorie, accusatorie o giudicanti è prevista in funzione di precise implicazioni giuridiche.
Forme di collusione che nel processo devono essere dimostrate, ma che il legislatore è tenuto a prevenire perché, anche a voler tacere del settarismo, che è di per sé una forma anche grave di collusione, hanno la loro scaturigine nel modo stesso di formazione del pensiero.
Dal punto di vista dell’individuo, infatti, la verità è semplicemente ciò che gli piace e gli occorre.
Dal punto di vista della società è invece ciò che in un certo momento vige per il fatto di avere vinto.
L’individuo ha cioè una visione strumentale del suo sapere, che usa in funzione delle sue esigenze.
Solo così nell’eterno rapporto di forza fra gli individui ciascuno saprà trovare la giusta posizione per raccogliere le energie necessarie per sostenere le tesi che gli convengono, e solo così ciò che è o sembra essere più funzionale allo sviluppo potrà vincere configurandosi come verità.
Una “verità” che ha poi moltissime connotazioni sovente profondamente diverse e non poche volte errate.
Il consumismo, ad esempio, è la più volgare e terribile delle “verità”, ma, essendosi disgraziatamente imposto, è pur sempre la “verità” vigente, così come è vigente l’attuale altrettanto volgare e terribile giurismo che lo sostiene.
E basti pensare a degli esempi di straordinaria clamorosità come quello recente dei tanti onest’uomini, a partire da Ciampi, tutti presi dall’analisi della maggiore o minore reprensibilità di certi modi di esercitare il ruolo di controllo della Banca d’Italia sulle banche, laddove in realtà tutti, compresa la magistratura, fingono di non sapere o di non capire le valenze del fatto che gli azionisti della Banca d’Italia non sono che banche che si vorrebbe essa controllasse, sicché, nulla potendo essere più scandaloso di questo, scandalizzarsi per tutto quant’altro è pura finzione o altrimenti sarebbe pura stupidità.
Il mio “mutazionesimo umanistico” (vedi in Internet, in “La storia di Aids”, il documento “Dal riformismo consumistico al mutazionesimo umanistico”) non è cioè allo stato funzionale agli interessi del tipo di “verità” che ancora prevale.
Benché Katrina, l’uragano, costituisca il vero inizio del cambio culturale dal momento che questo sciagurato far finta di nulla planetario non fermerà purtroppo nemmeno una delle mille e mille Katrine che, non certo a caso né per sfortuna, da ora in poi inevitabilmente si succederanno.
Una tipologia di “verità”, il consumismo, che caratterizza per il momento tutto ciò che vige a partire dalle leggi e dalla giurisprudenza, ma è ora incorsa in una crisi irreversibile, perché la collettività mondiale, nonostante continui ad esercitarlo a tutto spiano, ne ha decretato l’improseguibilità costituendo esso la causa dell’alterazione climatica che, diversamente, ci condurrebbe in breve all’inabitabilità del pianeta.
Problemi immensi che non vengono affrontati dall’attuale politica né dalla scienze e dalla cultura perché implicano la sostituzione, quale metodica del pensiero, della furberia, che è la capacità di crescere a scapito degli altri, con la più impegnativa intelligenza, che consiste nella capacità di svilupparsi passando attraverso lo sviluppo degli altri.
Trasformazioni culturali che però stanno già avvenendo e diverranno palesi prima di quanto si immagini perché non dipendono dalla buona volontà di nessuno ma saranno rese necessarie dagli eventi.
Giungendo infine al merito, che pure narro per la sua emblematicità, vengo processato per calunnia per quanto ho scritto in un documento di cui, all’epoca della sua pubblicazione, il PM Clemente chiese venisse interdetta la pubblicazione con un ricorso ex art. 700 cpc.
Una richiesta nel rigettare la quale il Presidente Saccone, della Prima Sezione Civile del Tribunale di Napoli, scrisse che “il documento ha diritto di esistere e di essere divulgato”: una frase intenzionale (aveva letto, e ci tenne a dirlo in udienza, “La storia di Giovanni e Margherita”) che getta gran disdoro sull’essersi tanto accaniti a studiarne gli inesistenti aspetti penalistici piuttosto che le valenze culturali.
Ciò detto, vi è calunnia quando con denunzia, querela, richiesta o istanza rivolta all’autorità giudiziaria o ad altra autorità che abbia l’obbligo di riferirne, si incolpi taluno di un reato sapendolo innocente.
Ora, per cominciare, se avessi voluto o ritenuto di dover incolpare formalmente di un reato questi PM non avrei certo corso il rischio di vedere caducata l’accusa per inadeguatezza, genericità ecc., ma avrei presentato nei modi di rito alla Procura della Repubblica una formale denuncia indicando le norme violate ed argomentandola tecnicamente.
Non è un caso quindi se ho invece pubblicato un volantino politico / culturale, nel quale le accuse di avere avuto un comportamento illegittimo, illegale, doloso, abusivo ecc.
hanno valenze generiche del tutto diverse di quelle richieste perché vi sia calunnia, tant’è, verrebbe da dire, che nessuno ha intrapreso, sulla base delle mie affermazioni, indagini né processi a carico dei PM.
D’altronde, in ben vent’anni ho scritto in questi documenti cose delle più gravi e, pur avendo ogni volta ciò prodotto cambiamenti, mai una volta essi sono stati interpretati come delle denunzie alle quali dover far seguire un’indagine o un procedimento penale, sicché non si vede perché dovrebbero esserlo questa volta.
Secondo, non solo non ha mai considerato questi PM incolpevoli di ciò di cui li accuso, ma essi hanno effettivamente fatto quelle cose.
Manca cioè la “immutazio veri”, ed il processo di Salerno ha confermato nella sostanza quanto affermo, salvo magari qualche dettaglio, ma bisogna considerare che, a differenza dei miei accusatori, che hanno nelle mani lo Stato, mi muovo con i mezzi di un ordinario cittadino.
Comportamenti che invero la giurisprudenza, quasi si trattasse di innocue monellerie (siamo nell’ambito del giudicarsi fra giudici), pur non potendo che censurarli, guarda tuttavia con occhio bonario trincerandosi dietro prassi e pseudo principi in realtà spregevoli dal punto di vista umano e gravi uno più dell’altro dal punto di vista della verace giuridicità.
Io ho infatti accusato questi PM:
—a) Di avermi, come risulta documentalmente, ad onta di ogni ovvio principio di diritto naturale, costituzionale ed europeo, facendo un uso strumentale delle norme, in contrasto persino con il formale invito del procuratore aggiunto Mastrominico ad iscrivermi nel registro dei fatti costituenti reato, nel mentre si indagava su cose previste come reato sconvolgendo per anni la vita della mia famiglia e mia e l’andamento del mio studio, tenuto lungamente iscritto nel registro dei fatti non costituenti reato all’unico scopo possibile quanto deliberato, di non far decorrere il termine biennale previsto per le indagini.
—b) Di essere stato così a lungo sotto indagine e sotto processo solo perché gli sono state assegnate o si sono fatte assegnare le indagini in violazione del meccanismo di assegnazione automatica. Ciò perché è ragionevole sostenere che qualsiasi altro PM al quale le indagini fossero state assegnate automaticamente avrebbe considerato le accuse inconfigurabili, visto che gli esiti le hanno poi stigmatizzate tali. Un’accusa fondata al punto che si è verificato, ad esempio, che quando Catena, che aveva l’indagine in sede pretorile, è stata trasferita al Tribunale, l’indagine è stata anch’essa promossa di rango e ri-rubricata in Tribunale, e lei ha quindi chiesto che le venisse di nuovo assegnata.
—c) Di avere innescato un’anomala logica indagatoria alla quale è seguito un meccanismo di “clonazione” dei processi, e si osservi che la mia ultima assoluzione è relativa ad un processo in cui, dopo ben tre anni, sono stato appunto assolto per essere stato già precedentemente assolto per gli stessi fatti.
—d) Di avere fatto su di me indagini di tipo “biografico”, tant’è che questa vicenda è nata dalla trasmissione alla Procura da parte del giudice del lavoro di un fascicolo per una firma presunta falsa, e che falsa non doveva essere perché non se ne è mai più saputo niente, ma alla quale è seguita non è noto né è mai stato spiegato perché dai PM quando sono stati interrogati a riguardo come testi un’indagine nel corso della quale, all’aprioristica ricerca di mai rinvenuti reati, si sono esaminati (sempre mentre ero iscritto nel registro dei fatti non costituenti reati) 18.000 miei fascicoli ed interrogati centinaia di miei clienti, vari dei quali poi trasformati loro malgrado in “denuncianti” facendogli sottoscrivere delle forbite benché ininfluenti ed anzi insulse dichiarazioni stereotipe di cui, nei vari processi, hanno per di più sistematicamente dichiarato di non sapere o di non capire nulla.
—e) Di avere violato l’art. 6 del Regolamento del Parlamento Europeo per non aver chiesto l’autorizzazione a procedere, stante all’epoca la mia qualità di parlamentare europeo. Cosa questa vera, ma irrilevante quand’anche avessi torto, richiedendo la calunnia che la cosa di cui si accusa taluno sia prevista come reato dall’ordinamento e non semplicemente considerata tale dall’accusatore.
Asserzioni insomma più che giustificate anche secondo la Cassazione e la Corte Costituzionale (bontà loro), per non parlare della Corte Europea, le quali tutte ammettono che, quando si subiscano comportamenti simili (ma ciò che è stato fatto contro di me è abnorme per entità, gravità e pericolosità), si sia giustificati nel sentirsi perseguitati e nel descrivere la scorrettezza e l’illegalità dei comportamenti subiti.
Processi, per fare un esempio di cosa ho dovuto sopportare, tutti finiti con il rigetto delle richieste di rinvio a giudizio o con le assoluzioni tranne uno che oserei invero sperare dovrà comunque finire in breve: quello nel quale sono stato risibilmente accusato di istigazione al falso ideologico di uno sventurato notaio presunto reo di non essere presente nella stanza al momento delle sottoscrizioni di certe procure a me di miei clienti per essere presente in sua vece non si sa se una segretaria o chi altri.
Un processo udite udite nel quale, pur essendo il notaio da ultimo stato assolto con sentenza giudicata del falso ideologico “perché il fatto non sussiste”, il giudice Alfredo Della Monica ed il PM Catello Maresca, all’udienza dell’11.7.05, non hanno ritenuto di avere il dovere di prosciogliermi immediatamente dall’imputazione di avere istigato il notaio a commettere il pur mai commesso reato.
Né le pur chiarissime parole di Saverio sono riuscite ad impedirgli di lanciarsi fra le altisonanze di una strana ordinanza basata, se così si può dire, sulla confusione fra 129 e 649 cpc (non ho sfortunatamente lo spazio per addentrarmi più oltre), oltre che sull’essergli sfuggito che processi simili (trattasi per di più di un “clone”) andrebbero cestinati sul nascere.
Cose invero né nuove né stupefacenti, ma che sarebbe ormai tempo di poter sperare di vedere superate.
Superior stabat lupus, diceva infatti Fedro due millenni fa, e pur essendo l’agnello longeque inferior ciò non gli impediva di sostenere, com’è noto, gli intorbidasse l’acqua.
Sennonché un sempre maggior numero di giudici inizia ad essere disgustato da queste concezioni a scapito e non certo a vantaggio della magistratura, ed inoltre la Corte di Strasburgo, pur continuando ad essere per molti versi la “tigre di carta” che descrivevo nel 96, si evolverà velocemente e costringerà la magistratura Italiana ad evolversi a sua volta, non fosse altro che attraverso il costringerla a rendersi conto di come la si vede dall’esterno, perché nel suo settarismo essa non ha forse coscienza di quanto duramente venga giudicata.
Ecco, onorevoli deputati e senatori, la norma che vieti ai giudici di giudicarsi tra loro (ci sono già due proposte di legge sulle quali non mi pronunzio perché non le conosco) è difficile perché richiede una modifica costituzionale, ma non consentirla significa negare alla magistratura lo strumento per potersi modernizzare causando poi la modernizzazione del paese.
Cordialità,
Alfonso Luigi Marra
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